Si è aperto giovedì (14 ottobre) a Roma, in loro assenza, il processo a quattro poliziotti egiziani coinvolti nell’omicidio del 2016 dello studente italiano Giulio Regeni al Cairo.
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Nel gennaio 2016, lo studente italiano di 28 anni Giulio Regeni è stato rapito da stranieri e il suo corpo è stato trovato torturato e torturato pochi giorni dopo nella periferia del Cairo. Ha fatto ricerche sui sindacati in Egitto, un argomento molto delicato in quel paese. Le accuse contro i quattro membri maschi della Sicurezza Nazionale – il generale Tareq Saber, i colonnelli Aser Kamal e Hicham Helmi e il maggiore Magdi Cherif – andavano dal rapimento alla cospirazione per commettere omicidio e lesioni personali gravi.
Lo svolgimento del dibattito è minacciato
La madre, il padre e la sorella dello studente sono arrivati giovedì mattina nella stanza sicura del carcere di Rebibbia a Roma, dove di solito si svolgono i processi per mafia, ha osservato un giornalista dell’Afp. Il servizio del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi ha annunciato, un giorno prima del processo, che il governo agiva come partito civico come simbolo di sostegno alla famiglia Regeni.
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Tuttavia, la minaccia incombe sullo svolgimento del dibattito. La Corte d’assise di Roma dovrà decidere se i quattro uomini siano stati informati o meno del procedimento giudiziario a loro carico. L’Egitto si è sempre rifiutato di fornire i propri dati di contatto ai tribunali italiani. Secondo la legge, non si può tenere un processo se l’imputato non è informato delle accuse contro di lui e non ha il tempo di preparare la sua difesa.
In un’udienza preliminare a maggio, un altro giudice ha stabilito che la copertura mediatica del caso aveva consentito di informare i quattro imputati, inviandoli in tribunale, ma quella decisione potrebbe essere annullata giovedì. E l’avvocato difensore d’ufficio Tranquillino Sarno ha detto all’AFP che il successo del processo dipenderà dalla comparizione o meno dei testimoni chiave.
“Torturare per giorni”
Gli inquirenti italiani accusano gli agenti dei servizi segreti egiziani di avere”torturato per giorni con ustioni, calci, pugni e l’uso di armi affilate e bastoni», prima di ucciderlo. Una tesi è stata respinta con veemenza dal Cairo.
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Nel 2018 hanno identificato cinque sospetti, tutti membri dei servizi segreti. La procura italiana, che ha chiuso gli archivi di uno dei cinque indagati, ritiene che lo studente sia morto per insufficienza respiratoria a causa di un colpo del maggiore Cherif. Calpestando costantemente la vicenda che da tempo avvelena i rapporti tra Il Cairo e Roma, l’Italia accusa regolarmente le autorità egiziane di non collaborare, o addirittura di indirizzare gli inquirenti italiani nella direzione sbagliata.
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